Emidio Clementi intervistato da Kurtz

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Questa è un'intervista pubblicata nel 2004 da Kurtz, periodico letterario vercellese, e convertita in HTML dal file RTF originale gentilmente speditomi da Gianluca.

EMIDIO CLEMENTI
Un’intervista di Gianluca Mercadante

Da qualche tempo in qua proliferano libri scritti da autori non convenzionali, come star della televisione, attori e, non ultimi, musicisti e cantanti. Per alcuni appare una scelta casuale, o di comodo. Nel tuo caso, si distingue invece un percorso, iniziato coi Massimo Volume, ma forse anche prima. Intanto, com’è cominciata la tua esperienza musicale?
Casualmente. O meglio, nella stessa maniera con cui ci si può avvicinare un adolescente. C’è qualcosa che preme dentro di te e sei convinto che la musica sia la maniera migliore per farla uscire fuori. Credo che a sedici anni, cominciare a suonare, rappresenti molto più che una questione di stile.

Le canzoni dei Massimo Volume rompono decisamente la tradizione. I testi sono recitati e ognuno sembra un racconto bonsai…
La verità è che nessuno di noi sapeva cantare. Gli altri misero me di fronte al microfono solo perché ero l’unico che scrivesse con una certa continuità, cose molto brevi che non erano testi e non erano neanche racconti. In più suonavo uno strumento, il basso, che non mi teneva troppo impegnato. Lo ripeto, fu tutto piuttosto casuale, ma lo capimmo subito che quello sarebbe potuto diventare il nostro stile, un marchio di fabbrica abbastanza originale. È il lavoro di sintesi la parte più affascinante nello sviluppo di una canzone. Quando funziona è come se i due elementi originari, la musica e il testo, producessero qualcosa di diverso e di più profondo. È il bello di lavorare in gruppo. La capacità di stupirsi diventa più alta. Sono però equilibri molto delicati quelli che lo tengono insieme, sempre sul punto di rompersi. Delicatissimi.

E qui, parallelamente all’attività musicale, sei uscito per un piccolo editore, Gamberetti, con un libro di racconti: “Gare di Resistenza”. È casuale, rispetto ai Massimo Volume, che tu ti sia accostato alla letteratura proprio con una raccolta - e non con un romanzo?
Non è casuale. Stavo cercando un respiro più ampio alle cose che scrivevo. Ma non ero ancora pronto per un romanzo. Fare in modo che una storia regga per duecento pagine invece che per quattro, è un problema che ho risolto solo quando ho cominciato ad avere una certa dimestichezza con la scrittura. Il passo che in quel momento potevo permettermi non era così lungo.

Pare però che l’editoria accetti con maggior entusiasmo i romanzi, piuttosto che le raccolte di racconti.
È vero. Sembra che oggi per scrivere un libro di racconti occorra essere un autore affermato. Altrimenti ti chiedono sempre se è possibile ridurre il tutto a una storia unica. A un romanzo, appunto. Mi dicono che le cose adesso stanno cambiando. Lo spero. La mia generazione si è nutrita di racconti. Non vede l’ora di ricominciare a scriverli.

Infatti il tuo primo romanzo, “Il Tempo di Prima”, più che una storia ad ampio respiro, sembra un contenitore di altre storie brevi.
Era l’unica maniera in cui, all’epoca, potevo risolvere il problema di cui ti parlavo un attimo fa: scrivere un romanzo come se fosse una serie di storie più brevi, tenute insieme da una cornice unica. Più in là non sarei riuscito ad andare. Rileggendo Il tempo di prima, ad anni di distanza, trovo ancora convincente la cornice (il lago, l’hotel: un bell’ambiente), meno i personaggi. Troppo logorroici, troppo concentrati su stessi nel trovare un senso alla vita.

E invece mettere su pagina l’intera tua vita fino a oggi, com’è accaduto di recente, che cosa significa per te? Come scrittore e come uomo.
Avviene un distacco. Quello che mi interessa è capire se la storia può essere affascinante. A quel punto diventa una storia e basta. Non penso sia così traumatizzante come si tende a credere. Tra i personaggi e le persone c’è sempre un abisso.

Eppure, “L’Ultimo Dio” resta un romanzo dove ti metti a nudo come mai hai fatto prima, se non forse nelle canzoni…
Penso che L’ultimo dio sia un romanzo più maturo rispetto agli altri scritti in precedenza, ma io credo in una lenta evoluzione. Lo stile di una scrittura ha bisogno di tempo per migliorarsi. Ogni tanto si butta giù una pagina che somiglia alla maniera in cui si vorrebbe scrivere. Ma rendere ogni pagina perfetta è un lavoro lungo, complicato, pieno di incertezze. Ci vogliono degli anni per affinarsi. Sono consapevole cheL’ultimo dio chiuda un ciclo, ma altrettanto convinto che le storie che mi aspettano dovranno comunque passare tutte attraverso il mio vissuto. Ne ho bisogno per poter dare alla storia la giusta dose di concretezza senza la quale la finzione risulterebbe solo falsità.

Quali letture hai amato particolarmente?
Ci sono tantissimi scrittori che ammiro. Philip Roth, Dino Buzzati, Antonio Franchini, Maupassant, Swift, Checov, la Mansfield, la Yourcenar. Si può andare avanti e indietro nel tempo. Si trova sempre una marea di grandi scrittori. In ogni epoca. Ora sto leggendo una biografia di Katherine Mansfield. Scritta da Citati più di vent’anni fa.

Sei andato a vivere per un po’ in Svezia, hai fatto tantissimi lavori là e tantissimi ne hai fatti ancora qui in Italia, quando sei tornato. Ora sei uno scrittore e un musicista libero che ha lottato da sempre per mantenersi tale. La tua lotta è finita o è proprio adesso che si fa ancora più dura?
Sì fa più dura. Le pacche sulle spalle non ti bastano più. A trentasette anni la gratificazione in quello che fai passa inevitabilmente anche attraverso la conquista di una stabilità economica. Essere tranquilli con i soldi ti convince che le scelte che hai fatto erano giuste, responsabili. Non sempre succede. Forse in questo i miei personaggi rispecchiano una parte di me stesso.

Ma i tuoi personaggi scappano, molto spesso. Poi ritornano, anche se non del tutto: eleggono posti nuovi a proprio ideale habitat. Familiari, ma lontani…
Mi piace cambiare senza mai dimenticare l’enorme potere protettivo delle abitudini. Lasciami tre giorni in un qualsiasi luogo in culo al mondo e vedrai che invece di girare per la città mi ritroverai seduto nel solito posto che già odora un po’ di casa. Ho un bisogno terribile di sentirmi a casa.

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