Il 24 novembre 2011 Emidio Clementi ha incontrato la classe IIB del liceo scientifico "Talisio Tirinnanzi" di Legnano (MI) e ha risposto alle domande dei ragazzi, che avevano in precedenza letto alcuni suoi libri, racconti e testi.
L’idea del farti venire qui e di leggere le tue cose è che ho voluto verificare con loro una frase di Flannery O’ Connor: “Se la vita non ci soddisfacesse sarebbe inutile fare letteratura.” In un’altra occasione disse che “la narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo fatti di polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi non dovreste tentare di scrivere narrativa”.
Quando si scrive non si riflette tanto su quello che si scrive però ora visto che sono qui con voi mi sembra invece giusto che una riflessione si possa fare. E’ vero che la letteratura non è evasione però è vero che uno quando legge vuole ritrovare la realtà, anche se depurata da quello che non ci va. Spesso si guarda quello che si ha intorno e non ci piace, troviamo banale la vita di tutti i giorni. Cercare di penetrare questa banalità, trovare il fascino di quello che ci circonda, questo è sempre stato l’obiettivo che mi sono posto come scrittore. Io ho sempre descritto quello che avevo intorno. Ad esempio “La Notte Del Pratello”, riguarda sei, sette anni della mia vita personale in cui lavoravo sgomberando cantine. E lì per lì era difficile trovare una fascinazione in tutto questo, anche se è un periodo che fa parte della mia giovinezza, lavoravo con gente particolare, strana, stimolante. Però era un lavoro molto duro, ripetitivo, sporco. Allora nel momento in cui ho deciso di scrivere di questo periodo è stato per trovare una fascinazione particolare. E in questo ho usato anche l’immaginazione perché nella realtà normalmente non lo troviamo, tutto questo fascino. Quella è sempre stata la prima spinta verso la scrittura: penetrare questo muro di banalità che circonda la nostra esistenza. E quando rileggo le mie cose e le trovo riuscite, è sempre quando questa quotidianità viene vista sotto un occhio diverso. Anche la letteratura che mi piace è così, è quella che mi fa dire: “Porca miseria, io ho sempre visto le cose in un modo e invece qui me le descrivono così, è molto meglio adesso!”. Il secondo romanzo che ho scritto, “L’Ultimo Dio”, per metà è un libro autobiografico, per l’altra riguarda Emanuel Carnevali, uno scrittore a me caro anche se non l’ho conosciuto di persona. Uno che giovanissimo è partito per l’America, ha fatto una vita da fame, si è ammalato ed è tornato in Italia. E’ stato utile leggere il suo libro perché lui descriveva una realtà che era la mia, aveva lavorato molto nelle cucine dei ristoranti, aveva fatto una vita marginale; eppure lui ha descritto quello che io ho vissuto nella vita di tutti i giorni, ma me l’ha ridato carico di fascino. Allora non è che serva per forza avere chissà che vita, ma basta avere uno sguardo più penetrante. Perché esiste un mistero. Non solo in quello che ci sarà dopo di noi ma in tutte le cose che facciamo, nell’aria che ci circonda, ecc. Esiste un mistero e quello non riusciremo mai a penetrarlo ma a scorgerne degli istanti sì ed è questo che fa la scrittura. E’ un processo che agisce anche a livello inconscio: non ci si chiede mai di solito perché uno vuole scrivere un certo racconto. Si parte da una frase, da qualcosa di molto piccolo e poi si costruisce qualcosa, piano piano, e lì c’è il mistero della vita. Io diffido dagli scrittori che prima di iniziare costruiscono una struttura e sanno già dove si andrà a finire. Ognuno ha la sua tecnica, per carità, ma trovo che questo tolga fascino alla scrittura, ci toglie la voglia di scoprire da soli dove si andrà a finire.
Perché ha deciso di iniziare a scrivere? Perché continua a farlo tuttora?
C’è da dire, a un livello più basso, che ho cominciato perché mi piaceva leggere. Ho cominciato dagli scrittori americani. Rispetto agli europei mi sembrava ci fosse meno l’idea di una cultura accademica. Facevano vite ordinarie, lavori ordinari, e nonostante questo scrivevano. Anch’io non ho mai fatto studi accademici e allora mi sembrava di essere un po’ al loro livello. Steinbeck, Bukowski, Carver, e ci vedevo molta vita dentro, e c’era dentro quello che volevo fare.
Quel tipo di letteratura molto realistica di cui ho parlato prima mi è sempre molto piaciuta e che ho sempre fatto. Adesso, con gli anni, mi piacerebbe usare un po’ di più l’immaginazione ma è anche vero che è uno strumento difettoso in mano mia. Meglio dunque rimanere sulla realtà, sul vissuto quotidiano. Poi è vero che l’immaginazione ci dà quell’opportunità di aprire porte che non sono state aperte. Potevamo salire su quell’autobus invece non siamo saliti. E se fossimo saliti? Da lì potrebbe partire una storia! Immaginarsi chiaramente, proprio come se fosse la realtà e fino a lì cerco di spingermi.
Alla pubblicazione invece ci sono arrivato in modo molto casuale: ho iniziato a scrivere prima di fare musica però poi i primi lettori che ho avuto sono arrivati grazie al gruppo. Un giorno una giornalista del Manifesto è venuta a una mia lettura e mi ha proposto di raccogliere in un volume alcuni miei racconti. “Gara Di Resistenza” viene fuori da qui. Da lì mi è venuta voglia di sperimentare il passaggio al romanzo. Un passaggio faticoso, non fosse altro per le pagine che ci sono da riempire. E così, una cosa dopo l’altra, sono entrato in questo mondo. Non posso quindi dire di aver voluto a priori diventare uno scrittore: ad un certo punto mi sono trovato ad esserlo. La stessa cosa è accaduta con la mia esperienza artistica: i casi della vita mi hanno portato lì, mi ci sono ritrovato. Alla fine sono lavori che danno grandi privilegi. Non guadagni tanto però quel poco lo tiri su con le idee che ti vengono e questo mi sembra una grande cosa. Anche la possibilità di poter gestire la propria esistenza senza timbrare il cartellino non è male. Poi in realtà la mia vita inizia alle sei e mezza alla mattina ed è scandita dagli orari esattamente come le altre, ma ti dà almeno quella vaga illusione che non sia così… e poi stai a contatto con la gente… è bello, insomma!
Abbiamo notato che moltissime delle cose che lei scrive c’entrano con la sua esperienza. Come mai? Che cosa vuol dire scrivere della propria vita?
Mi facilita il compito quando parlo di qualcosa che appartiene al mio vissuto. Nel momento in cui scrivo, riesco meglio ad operare una selezione delle cose che mi interessano di più e che mi aiutano con la storia, in maniera molto migliore che se usassi l’immaginazione. Ad esempio, l’ultimo romanzo che ho scritto, “Matilde E I Suoi Tre Padri” è una storia che riguarda la famiglia di mia moglie. Io conoscevo la storia ma poco di più, non conoscevo le ambientazioni all’interno delle quali si sarebbero dovuti muovere i personaggi e quindi ho dovuto usare molto di più l’immaginazione per creare i dialoghi, ad esempio. E in quel caso ho scritto molto di più, ma per far vedere a me stesso come erano fatti questi spazi. Poi ho tolto le cose che mi sembravano troppo prolisse. Però questa è un’operazione faticosa e anche noiosa. Se invece riguarda il mio vissuto riesco a fare una selezione in anticipo e questo rende la scrittura più fresca. Però va detto anche che in questo caso, c’è sempre qualcosa di immaginato: magari conosco tre persone reali e le faccio diventare un unico personaggio.
A volte mi creano dei problemi: ho scritto un racconto di quando lavoravo in un negozio di pellame. Il proprietario mi raccontava molte storie di sesso. Io all’epoca non ero molto bravo a mascherare personaggi e situazioni. Uscì questo racconto e si capiva benissimo chi era il protagonista. Sono stato anche un po’ sfigato: non era uscito in molte copie però in qualche modo è arrivato a San Benedetto, dove all’epoca vivevo, la moglie l’ha letto e l’ha lasciato. Allora lui è venuto sotto casa mia e voleva massacrarmi di botte. Può essere anche rischioso insomma! E poi ho parlato della mia famiglia, ho parlato della famiglia degli altri… nell’ultimo libro ad esempio ho fatto di tutto perché un ramo della famiglia di mia moglie non vedesse il testo altrimenti ci sarebbe rimasta molto male. Quindi a volte è un problema quando si parla di persone che si conoscono. Non di me, io non ho segreti e comunque mi so gestire, però con gli altri il discorso è diverso. E’ vero però che lo scrittore fa quello, è il suo lavoro anche se delle volte si fa dei nemici.
Avete visto quel film di Woody Allen, “Harry A Pezzi” Lui fa lo scrittore e tutti sono incazzatissimi con lui per quello che scrive e lui continua a ripetere: “Ma non sei tu!” Ed è vero! Perché quando si comincia a scrivere si parte da un personaggio reale ma poi andando avanti la carnalità si perde e tu non colleghi più quella persona al tuo personaggio e speri che anche per la persona in questione sia così.
Mia moglie ha sofferto parecchio mentre io scrivevo l’ultimo perché continuavo a chiederle cose di un passato che non aveva voglia di rivangare, per lei era doloroso. Però alla fine è così, lo scrittore è crudele, deve far quello.
Anche a me è successo di ritrovarmi nei libri e nelle canzoni degli altri. Nel mio caso non mi ha mai dato fastidio. Forse alla fine ha prevalso il mio essere vanesio e quindi ero orgoglioso che qualcuno mi avesse descritto. O forse, proprio perché faccio lo scrittore anch’io, ho capito che quel tipo di rappresentazione non è mai realistico. Dalla realtà alla pagina c’è un passaggio che poi cambia le cose. “La pura verità come solo un bugiardo può raccontarla”: ho usato questa frase di Katherine Mansfield all’inizio de “L’ultimo dio”. Mi sembra una sintesi perfetta di ciò che fa lo scrittore.
Come le vengono le idee, generalmente? Le è mai capitato di avere avuto l’improvvisa esigenza di scrivere e di doversi fermare a buttare giù parole in situazioni e contesti strani?
Le idee mi vengono scrivendo. Non capita mai una cosa del tipo “adesso sono qui con voi ma penso che potrei scrivere un racconto sulla gioventù, ecc.”. E’ solo cominciando a scrivere che le idee mi si formano. E spesso passano senza che io me ne accorga: a volte leggo e dico “Bello questo!”, cioè una cosa che ho scritto io ma di cui al momento non mi ero accorto. E mi sembra quindi vera una cosa che diceva anche Bob Dylan, che bisognerebbe un po’ predisporsi alla scrittura, in modo tale che ti passi attraverso qualcosa che poi alla fine nemmeno ti appartiene. Due o tre volte mi è capitato, specialmente coi testi, che rileggendo ho detto: “Non pensavo di essere così intelligente da scrivere una roba del genere!” Quindi forse dipende proprio da come ci si predispone. Io cerco di dedicare alla scrittura un po’ di tempo tutti i giorni. Scrivo alla mattina perché è il periodo in cui mi sento più fresco mentalmente e questo è l’aiuto che posso dare alla mia creatività. Al di là di questo, poi le idee mi vengono nel momento in cui sto di fronte al computer.
E no, non mi è mai capitato di scrivere in posti strani. Mi ci vuole tempo perché la realtà si sedimenti: spesso mi rendo conto che qualcosa mi ha colpito un mese dopo che è successo, mai prima. Scrivere su qualcosa che è successo il giorno prima non mi piace, mi sembra di non avere una distanza prospettica sufficiente.
Abbiamo notato che in molti dei suoi testi non è ben chiaro di che cosa si sta parlando, eppure risultano lo stesso affascinanti (a me ad esempio colpiva molto “Ravenna”). Allora la domanda è: per apprezzare questi testi serve per forza capirli? Oppure, al contrario, il capirli perfettamente li potrebbe far apparire meno affascinanti?
E’ chiaro che in una canzone rispetto a un racconto o un romanzo puoi giocare di più con l’alone di mistero. Hai meno tempo a disposizione per cui puoi puntare non sulla chiarezza a tutti i costi ma sulle immagini, sui rimandi, sull’essere evocativo. In questo senso “Ravenna” il suo lavoro lo fa: è una canzone malinconica, si vede che ci sono persone dentro, c’è un sentimento… poi anche se non si capisce bene di che cosa parla, funziona lo stesso. L’importante quindi è che qualcosa riesca a passare. Un altro esempio: nel primo disco dei Massimo Volume c’è questo testo molto breve, sembra quasi un haiku che dice: “Chiudiamo dentro scatole pezzi di vita andati. Restano stanze vuote”. L’ho scritto quando sgomberavo cantine, quando arrivi c’è la polvere, cose rimaste da 30 anni, topi e gatti morti. Porti via tutto e quello che dà è una bella sensazione: siamo arrivati e c’era il delirio, adesso è tutto pulito e ordinato. E ho scritto quel testo. Poi mentre l’ho scritto, nonostante ci fosse un rimando preciso con la realtà, mi sono accorto che questo evocava qualcosa di più. Per cui è vero, quando lasci qualcosa aperto è più affascinante, evoca di più che non spiegare per forza tutto. Se ve lo spiego vi dico: c’è una stanza piena di confusione e poi una stanza pulita. E’ un po’ un banalizzarlo forse. Però è anche vero che la realtà ha un certo potere: descrivendo la realtà a volte si aprono degli spazi di significato che non ci eravamo immaginati, che non pensavamo potessero esistere.
Ci siamo accorti che le cose che scrive in generale sono piuttosto tristi. Perché?
Vorrei che non fosse così. Non è la prima volta che mi viene detto. Però come a un pittore riescono determinati colori, anch’io ho i miei. Mi trovo a mio agio quando c’è una tragicità di fondo, una vena malinconica. Ne “La Notte Del Pratello” ci sono anche delle parti che sono più divertenti, anche se è sempre una comicità un po’ amara. Perché è così? Sono fatto così! Vorrei avere più registri però bisogna anche fare i conti con i limiti che uno ha. Questo forse è più evidente nelle canzoni perché nei libri ogni tanto me li sono concessi, dei registri un po’ diversi. Nelle canzoni funziona meglio il registro tragico. Io spero però che venga percepita una certa energia, una certa curiosità, voglia di vivere, di provarci, perché queste cose ci sono. Poi è vero che se uno scrittore guarda la realtà è difficile essere spensierati. Ed è anche vero che se tu mi descrivi un rapporto d’amore, per esempio, dove tutto va bene, passate giorni meravigliosi insieme, ecc. io mi annoio ad ascoltarti. Viceversa, se mi parli dei problemi che avete, la mia curiosità è solleticata molto di più. Alla fine così si presta più attenzione alle contraddizioni che alle cose che vanno avanti in maniera lineare.
Rileggendo i miei libri trovo sempre un sacco di imperfezioni, cose che mi piacerebbe modificare. Però allo stesso tempo, trovo queste imperfezioni molto stimolanti. Che vale anche per la realtà che descrivo: è vero, è contraddittoria, è drammatica, però un mondo perfetto sarebbe forse molto meno interessante. I miei libri sono tristi, forse anche tragici, ma io mi sento una persona positiva, con una grande fiducia nella realtà. Anzi, magari dico un’eresia, ma a volte mi sembra che il mondo sia giusto così com’è. Anche nei confronti del genere umano mi sento così: sono convinto che siano molto di più le cose meravigliose fatte dall’uomo che quelle atroci che ha compiuto. Mi stupisco di cose semplici, come veder volare un aereo o di come l’uomo ha usato la sua intelligenza per compiere delle scoperte… insomma, dovessimo parlare con un marziano ne avremmo di cose da dirgli! Anche nel nostro intimo: quanti sentimenti e stati d’animo abbiamo dentro di noi! Odio, amore, senso di abbandono, di protezione… sono cose che non ci si stancherebbe mai di raccontare.
Noi avevamo ipotizzato che questa tristezza potrebbe essere derivata dalle difficoltà che ha dovuto affrontare nel corso della sua vita. E’ così?
Non lo so. Io sono cresciuto in una famiglia senza stimoli culturali. A casa mia non c’era un libro e non c’era un disco. Questo in qualche modo mi ha aiutato: arrivato a 13, 14 anni avevo una certa fame di queste cose, di lettura, di musica e per me è stata una bella scoperta, un mondo completamente vergine da scoprire. Invece in casa di certi amici, biblioteche enormi, loro erano più apatici. Io rimanevo meravigliato: “Guarda, hai tutta la bibliografia di Saul Bellow!” E lui: “Eh, ma quelli sono i libri di papà...”. Quindi certe volte le difficoltà aiutano. Nel mio caso certamente lo hanno fatto: ho viaggiato, ho lavorato fuori, tutte esperienze che poi sono diventate materiale che ho riversato nei miei scritti. Ho incontrato figure interessanti, che ho descritto, gli anni passati in Svezia a distribuire giornali, il trovarmi completamente solo in un paese straniero senza sapere la lingua, ecc. Tutte cose importanti che hanno contribuito a formare la mia personalità ma anche a farmi venire fuori come scrittore. Alla lunga, vivere sempre in un ambiente protetto può avere i suoi svantaggi, perché non ci si confronta mai con la realtà, che può essere anche molto dura.
Una domanda su “La Notte Del Pratello”: cosa ha voluto dire per lei raccontare un periodo non particolarmente bello e felice del suo passato anni dopo, quando la sua vita è notevolmente migliorata?
Pensa che io credo che sia il mio più allegro! Scherzo, in realtà! Guarda, non voglio fare discorsi da vecchio però un po’ è inevitabile. Quello è il libro della mia giovinezza, sento molto la nostalgia di quel periodo. C’erano personaggi reali che sono stati un po’ i miei padri spirituali, alcuni dei quali io ho continuato a raccontarli sempre: Leo c’è in ogni mio romanzo, c’è nella metà delle canzoni che ho scritto. Sono stati fondanti per me. E poi la malinconia riguarda un po’ anche una Bologna che non c’è più. E’ diventato una sorta di romanzo generazionale in cui molti si riconoscono. “Il periodo del Pratello” dicono, assieme al rammarico che questo non ci sia più. Vivevo nelle case occupate e in strada c’era una solidarietà umana che adesso non c’è più. Oggi è ancora una strada viva, ci sono i negozi, i bar, si va lì a bere però è diverso, non è più come a quei tempi. Eravamo dei pirati della città. E’ stato divertente. Non so se è capitato anche a voi, ma c’è un momento, da piccoli, in cui si sta spesso per terra e si conosce ogni centimetro di un certo luogo: le mattonelle di casa, il terreno di un campo da calcio. Si ha proprio il contatto concreto con le cose. Anche noi eravamo così, Bologna in quel momento era come se ci appartenesse fisicamente. Era molto bello. Anche se era una vita faticosa: lavoravo a sgomberare cantine poi la sera lavoravo in un ristorante, suonavo già… insomma, era la vita di un giovane nelle case occupate dove si andava a dormire alle quattro, sempre in strada, sempre in un vertice continuo. E poi quel mondo è finito. Un po’ con la morte di Zaccardi, come anche racconto nel libro. Lui aveva questa ditta di sgombero cantine ma nel momento in cui è morto noi non siamo stati capaci di portarlo avanti, non avevamo la sua stessa cattiveria, la sua dote imprenditoriale. E così, abbandonate le case occupate, ce ne siamo andati in affitto da qualche altra parte diventando un po’ borghesi, se così si può dire.
Lei ci è sempre sembrato molto inquieto, perennemente alla ricerca di qualcosa. Come ha fatto a trovare finalmente la pace interiore?
Non l’ho trovata! Sono sempre molto insoddisfatto, mi rendo conto dei limiti che ho come scrittore e vorrei superarli… come dico in una canzone dell’ultimo disco: “l’illusione che le cose che abbiamo detto fossero davvero quelle che avevamo da dire”. Mi rendo conto di non riuscire ad esprimermi come vorrei e allora c’è un accomodamento in basso che è molto frustrante. E’ una battaglia che, come scrittore, combatto ogni giorno: quella di avvicinarmi sempre di più a quello che ho dentro e che vorrei tirar fuori. I mezzi sono limitati, non ho una scrittura facile, per me farlo è un sacrificio, è doloroso, anche se poi dà soddisfazione. Uno come Kerouac ad esempio, era uno che scriveva sulla carta igienica mentre era nel bagno ad una festa ubriaco… a me non capita mai! Io devo essere nella mia stanza, deve esserci silenzio, devo avere qualche ora a disposizione. E poi alla fine della giornata da scrittore se ho fatto duemila battute, che è a stento una pagina, per me è importante, quella la valuto come una giornata andata bene. Ma l’inquietudine è importante, comunque, bisogna essere inquieti! Dice una cosa molto bella Dickens: Spesso la vita ti impone dei tempi, della libertà, ti mette in affanno. Però questo è anche un grande dono perché ti spinge sempre, non ti fa stare fermo, ti porta a dare il massimo. Perché si potrebbe sempre far meglio. Però ci sono le condizioni oggettive, le scadenze, ecc. Ad esempio tutti i testi dell’ultimo disco, che io considero belli, li ho scritti con mia moglie che era al lavoro, la mia seconda figlia era appena nata e l’altra aveva tre anni. Allora tra un pasto da preparare, il doverla accompagnare all’asilo, andare ai giardinetti con loro… poi alla sera mi mettevo lì, piuttosto stanco ovviamente e pensavo che sarebbe stato molto bello avere più tempo, più freschezza mentale. Però dovevo consegnarli perché il disco a settembre doveva essere pronto. E alla fine sono nati così, con una loro imperfezione, pressati dalla realtà e dalla vita. Sono cose con cui bisogna fare i conti e che se riusciamo a girare dalla nostra parte possono risultare positive. Perché tanto non ci sarà mai un periodo in cui noi potremo fare quello che vogliamo! A me, per lo meno, non è mai capitato!
In alcuni scritti lei fa spesso uso di parolacce e volgarità mentre in altri non ce ne sono. Come mai? A che cosa serve secondo lei la parolaccia all’interno di un racconto?
Col tempo, se posso, preferisco evitarle. A meno che non riguardino un personaggio per cui, se togli quel tipo di linguaggio, perde la sua verità. In particolare, ne “La Notte Del Pratello” mi sembravano indispensabili per caratterizzare ambienti e personaggi: cosa sarebbe ad esempio uno come Zaccardi senza le sue imprecazioni? Ci sono scrittori che le utilizzano e capisci che è necessario, ma a volte è fastidioso, quando capisci che sono ammiccanti, che è un modo artefatto per avvicinarsi ad un certo linguaggio giovanile. “L’Ultimo Dio” ha un’altra storia, più lirica, più sentimentale, non sentivo affatto il bisogno di usarle. Credo che le parolacce funzionino quando avverti che c’è una sincerità di fondo in chi te le racconta. Uno come Bukowski deve mettercele le parolacce, per forza!
Abbiamo avuto una discussione riguardo ai titoli dei capitoletti de “L’Ultimo Dio”. Alcuni dei miei compagni hanno proposto di dare nuovi titoli, più semplici, che rispecchiassero meglio il contenuto delle varie parti. Io mi sono opposto perché secondo me sono molto interessanti e in alcuni casi sono anche riuscito a comprendere il legame con il capitolo. Che cosa ne pensa?
Sono tutte frasi di Emmanuel Carnevali. Sono più evocativi che altro, le ho messe non tanto con la preoccupazione di dare il titolo giusto ai capitoli, quanto per la necessità di tenere vivo questo contatto tra me e lui. Alcune volte sembrano giusti, altre volte è vero, devi fare un po’ uno sforzo per arrivarci.
Infatti i miei compagni il capitolo su Spinelli l’hanno intitolato “Calcio” ma per me non funziona proprio…
No, infatti il calcio non c’entra tanto in quella parte! Però un libro sul calcio mi piacerebbe scriverlo! E’ un bel mondo e non è da molto che lo si racconta in letteratura. Però è sempre stato fatto in maniera molto lirica. Il primo credo sia stato uno scrittore sudamericano, che ha scritto un libro di racconti, tutti su questo tema. Da quel giorno c’è stata o la cronaca, oppure appunto questo sguardo poetico, il calcio come metafora sulla vita, cose così. Se a me capitasse mai, mi piacerebbe scrivere un qualcosa di molto più concreto, che abbia magari al centro la vita comune di calciatori normali, non il mondo della serie A che è molto più patinato, da rockstar. Un calcio minore insomma.
Ci ha colpito il modo in cui descrive certe persone che ha incontrato nel corso della sua vita (ad esempio Giulia, la ragazza che ne “L’ultimo dio” l’ha ospitata a Londra o l’uomo del racconto “Madurai, un incontro”). Li ha più rivisti?
Giulia in realtà è una mia amica sin dai tempi della scuola e si chiama Silvia Ballestra, anche lei è scrittrice. L’episodio di cui parli è andato un po’ diversamente: ero andata a trovarla a La Rochelle, non a Londra. Mi ospitò effettivamente a casa sua di nascosto, io ero stato a Londra ma l’episodio era avvenuto in un’altra città. Lei ad esempio, per tornare a quello che si diceva all’inizio, quando ha letto quel capitolo non ci si è riconosciuta per niente. Eppure io l’avevo descritta con sincerità, era davvero così che la vedevo. Lo ha fatto anche lei con me: nell’ultimo romanzo tra i personaggi compaio anch’io.
Il rapporto con lei è stato molto utile: ci siamo scambiati idee e letture quando ancora nessuno dei due scriveva ed è una cosa che continua anche adesso, nonostante ci si veda molto poco e ci si senta per lo più al telefono.
E poi c’è mia madre. Ne "L'Ultimo Dio" la descrivo molto, come avete visto. E questa cosa, all’epoca mi aveva spaventato: ho scritto questo libro anche a partire da alcune vicende della mia famiglia, mio padre che aveva perso il lavoro e l’indigenza totale in cui ci siamo trovati a vivere da un momento all’altro. Io non ho mai interrogato i miei genitori su che cosa fosse successo realmente, sul perché mio padre avesse perso il lavoro, e nemmeno dopo la morte di mio padre ho fatto domande a mia madre. Ho scritto però questo libro, in cui immagino di fare le stesse domande al suo personaggio. Mia madre l’ha letto e mi ha detto: “Molto bello, mi è piaciuto soprattutto il personaggio della madre.” L’ha quindi staccato da sé, per cui neanche allora abbiamo affrontato quelle domande. In un certo senso meglio così: arrivato a 44 anni non ho più voglia di entrare troppo dentro queste cose di famiglia, non ho voglia di questo carico di verità e sincerità. Come esperienza letteraria però mi sembrava bella: l’idea di scrivere un libro perché vuoi scoprire alcune cose della tua famiglia. Poi la famiglia è sempre un terreno molto fertile per scrivere: ci sono odi, amori, gelosie, va sempre bene scriverci sopra! Di solito ai miei studenti dell’accademia di scrittura dico: “Voglio un po’ di tragedia: parlatemi della vostra famiglia!”. E c’era questa ragazza che invece mi ha portato un racconto in cui era tutto rose fiori, lei amava la nonna, il padre amava la madre… e io le ho risposto: “Dai, non può essere vero!”. E lei: “Sì, ma non ho voglia di scrivere cose tristi.” Poi per carità, sono molto legato alla mia famiglia, a mia moglie, alle mie bambine. Però è vero che la famiglia è un contenitore di tensioni. E da quanto ci si scrive sopra? E non ci ha mai stufato!
Ho affrontato questo argomento anche in “Matilde E I Suoi Tre Padri” e lì è particolare perché è una storia in cui Matilde, la figlia, si scaglia contro i suoi genitori non perché sono troppo protettivi o troppo all’antica, ma proprio perché sono troppo liberali e lei vorrebbe una situazione un po’ più normale. E’ dunque uno scontro generazionale che avviene sempre, indipendentemente da come sono i genitori e i figli. Credo sia una cosa vitale e sana.
Ci hanno colpito altri due testi: “La Notte Dell’11 Ottobre” e “La Città Morta”. Che situazioni descrivono? Da dove le sono venute queste idee?
“La Notte Dell’11 Ottobre” parla di un incubo che ho fatto. “La Città Morta” invece è Emre, in Turchia ed è veramente una città morta: è costruita su una montagna, a strati. Ci sono stato in vacanza e sembrava che la morte di questa vecchia città si riflettesse come un alone anche su quella moderna, che è stata ricostruita anni dopo. C’era questo hotel spettrale, quasi da “Shining”, che ho messo nella canzone. Per quanto riguarda l’altro testo, io ho sempre trovato noioso raccontare i sogni, e allora in quel caso ho voluto fare qualcosa di un po’ diverso e ho tentato di renderlo il più normale e concreto possibile: ci sono infatti indicazioni di luoghi e date. In questo modo ho cercato di farlo uscire dal piano lirico e dargli una propria concretezza.
Quando e come sceglie i titoli da dare ai suoi romanzi?
Il titolo è sempre l’ultima cosa. E poi va detto che non sempre lo trova lo scrittore. In musica c’è la figura del produttore artistico, che è quello che mette a posto, ordina le idee che hai. La stessa cosa, nel mondo della scrittura, la fa l’editor. Ora, mentre il produttore artistico è in genere accettato, normalmente c’è questa idea per cui l’editor toglierebbe la sacralità al lavoro dello scrittore. In realtà è un ruolo molto importante. Anzi, i miei progressi come scrittore ho iniziato a farli proprio nel momento in cui ho avuto la possibilità di lavorare con bravi editor. Cose come: “Togli questa frase.”, “Io con questo personaggio la chiuderei qui”, oppure ancora “Qui ci vorrebbe un capitolo in cui spieghi meglio il rapporto tra questi due personaggi.”. E la stessa cosa per il titolo: “Gara Di Resistenza” è mio, però “Il Tempo Di Prima” è del mio editor. Poi c’è stato “La Notte Del Pratello” che è venuto in mente a me ma con l’articolo indeterminativo. “L’Ultimo Dio” è dell’editor mentre invece “Matilde E I Suoi Tre Padri” è mio. Per dire che non c’è solo lo scrittore. Anzi, una volta terminata la stesura, comincia tutto un altro lavoro: ad esempio, io ho quattro, cinque amici di cui mi fido e ogni volta gli do da leggere il libro appena finito, con la raccomandazione di essere spietati, di non lasciar passare nulla. Loro di solito sono spietati e io mi offendo e non gli parlo più per una settimana!
[risate]
Però poi capisco quello che mi vogliono dire e torno indietro. Per dire che quello è già un momento in cui il libro esce da te. Un libro manoscritto fa il giro delle persone che lavorano nella casa editrice e ognuno con una penna diversa fa le sue correzioni, relative ad aspetti diversi. Così lo scrittore si ritrova con questo prodotto che è diventato di tutti i colori e che poi alla fine viene messo in commercio. Per cui capite che conta molto anche il lavoro di altre persone, nel processo di lavorazione e pubblicazione di un romanzo. E’ quindi sbagliato pensare solo ed esclusivamente nei termini dello scrittore vero e proprio.
Vi faccio un esempio: Carver lavorava con un editor molto bravo, Gordon Lish, la cui importanza non si era mai capita fino a quando, poco tempo fa, è stato pubblicato un libro di racconti di Carver privi degli interventi operati da Lish. E tutti dietro a dire: “Beh, ma allora non è che fosse poi così bravo, se tutto questo lavoro di sottrazione gliel’ha fatto un altro!”. In pratica è stato a posteriori accusato di non avere nessun merito nella creazione di quello stile minimale per cui è passato alla storia. In realtà non è vero: si tratta sempre di un lavoro di equipe, lui comunque ha approvato quelle modifiche ed è sempre molto difficile, a lavoro finito, distinguere esattamente il contributo dell’uno e dell’altro. Fa tutto parte di un processo normale, che c’è sempre stato ed è giusto che ci sia. Lo scopo è far sì che una cosa che hai scritto arrivi prima al lettore, per cui non è che levi una frase o togli delle virgole quello che hai scritto non c’è più!
Riguardo alla sua musica, non le è mai venuta voglia di scrivere canzoni per così dire “normali”?
[risate]
Per me sono quelle le canzoni normali! Ormai abbiamo creato un nostro stile per cui, quando componiamo pezzi nuovi, ci rendiamo conto quali sono in linea con quello che abbiamo fatto nel passato e quali magari presentano degli aspetti di novità. I target bisogna dimenticarseli, secondo me. Anzi, di solito riesci a parlare a molta più gente quando fai qualcosa di molto personale, perché se sei sincero in quello che fai vai a toccare un punto che tutti hanno, delle corde che sono nella sensibilità di ognuno. Quando invece cerchi di essere più ammiccante, normalmente non riesci ad essere così. Quindi il consiglio che ti darei, se mai dovessi fare musica, è proprio quello di scrivere qualcosa che senti veramente.
Lo dico perché, leggendo i suoi testi, mi è venuta voglia di ascoltare le musiche ma, sebbene quello che scrive mi piacesse, le canzoni mi sono apparse molto strane. Poi ho dovuto spegnere quasi subito perché dal piano di sotto mia madre mi ha urlato di togliere “quel casino”.
[risate]
Beh, ti capisco! Dopotutto quello che facciamo noi non è per tutti, anche mia madre la pensa come la tua, quando veniamo a San Benedetto a suonare viene a sentirmi ma perché sono suo figlio, mica per altro! Eppure ogni tanto anche a me piacerebbe raggiungere un po’ più di gente, però fa anche parte di quei limiti di cui parlavo prima: io non so cantare per cui questa cosa che è un punto di forza, perché ci ha permesso di creare uno stile nostro, dall’altra parte ci impedisce di raggiungere un’altra fetta di pubblico, più legata alla canzone tradizionale.